mercoledì 8 novembre 2017

L'adozione nei paesi islamici


“Dio non… ha fatto dei vostri figli adottivi dei veri figli… Chiamate i vostri figli adottivi dal nome dei loro veri padri… E se non conoscete i loro padri, siano essi vostri fratelli nella religione e vostri protetti…”. Corano (Sura XXXIII: 4-5, 37-40)

A parte la Tunisia, l’adozione nei Paesi di religione musulmana è vietata non solo all’interno dello stesso Paese, ma è vietata anche l’adozione internazionale. Il divieto di adozione è rimasto anche nelle legislazioni contemporanee dei Paesi islamici, i quali concedono però largo spazio al riconoscimento di paternità, ammesso dal diritto islamico, il quale produce un legittimo rapporto di filiazione. Il riconoscimento di paternità diventa quindi un sotterfugio giuridico per aggirare questo divieto.
Il Corano, e quindi il diritto islamico che dal libro sacro deriva,  proibisce l’adozione in generale, perché non riconosce legami tra genitori  e figli diversi da quelli biologici.
La nostra adozione non esiste nei paesi musulmani dove si è figli solo se c’è il legame biologico. Esiste però la “Kafala” (in diritto islamico significa “fideiussione”) che è un istituto giuridico e costituisce oggi lo strumento principale di protezione dell’infanzia in tanti Paesi islamici. Il minore per essere sottoposto alla Kafala deve essere preventivamente dichiarato in stato di abbandono dal Tribunale. Secondo la Kafala un bambino musulmano  che è orfano di entrambi i genitori  o un bambino abbandonato dai suoi genitori biologici viene  affidato preferibilmente a dei parenti maschi che curino la crescita e l’istruzione del minore. Questa persona diventa nel termine islamico  ”kafil” e  il bambino diventa un ” makfoul”, cioè vuol dire che il bambino non cambia cognome e non diventa figlio. L’impegno richiesto è di crescere e accudirlo fino a quando compie 18 anni. Questo significa che la “kafala” non crea alcun legame parentale e non recide il vincolo di sangue del minore con la famiglia d’origine. La “Kafala” quindi corrisponderebbe quasi ad un ” affidamento famigliare”  disciplinato nei nostri paesi occidentali, ma si differenza in quanto prevede l’impegno definitivo del “kafil”, mentre il nostro istituto prevede la collocazione  temporanea del minore presso un’altra famiglia, in attesa del momento in cui il minore potrà tornare nella propria famiglia d’origine.

Sylvia Eibl, presidente di  Children First onlus
Associazione Umanitaria Filantropica, www.childrenfirst.it